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  • Immagine del redattore: Veronica Mazziotta
    Veronica Mazziotta
  • 5 giorni fa
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 3 giorni fa

Dicembre 2, 2025


La memoria delle superfici: sul corpo, la materia e la rappresentazione nell’arte di Giovanni Leonardo Bassan


GIOVANNI LEONARDO BASSAN, INTERVISTA DI VERONICA MAZZIOTTA



GIOVANNI LEONARDO BASSAN BLUE TEMPLE, 2025 Oil and pastel on linen canvas 115 × 155 cm
GIOVANNI LEONARDO BASSAN BLUE TEMPLE, 2025 Oil and pastel on linen canvas 115 × 155 cm

Ph. AMIR HAZIM


C’è una forma di silenzio che abita la pittura di Giovanni Leonardo Bassan. Non è un vuoto, ma un respiro sospeso, come quello che precede un gesto, un ricordo, una ferita. Nei suoi lavori, il corpo non è mai del tutto presente: affiora come traccia, come memoria della materia che lo ha ospitato.Bassan, nato a Marostica e da anni residente a Parigi, costruisce un linguaggio in cui la pittura diventa scultura, il gesto si fa rito, e la superficie si apre come una pelle attraversata dalla luce. I materiali — tessuti militari, lana, pigmenti grezzi — portano con sé la memoria del tempo e della vulnerabilità.

Nel suo universo visivo, la fragilità non è debolezza, ma possibilità di contatto. C’è un senso di compassione laica nel suo modo di guardare gli altri, una forma di spiritualità terrestre che unisce la pittura alla vita vissuta, al ritmo della città, all’intimità del corpo.In questa conversazione, Bassan riflette su tempo, materia, memoria e sul modo in cui la moda e la tecnologia stanno ridefinendo la sensibilità contemporanea.


V.M. Guardando indietro al tuo percorso — dagli studi in design al trasferimento a Parigi, dalle prime sperimentazioni con tessuti e sculture fino alle esposizioni internazionali — qual è il momento che consideri “punto di non ritorno” nella tua carriera, quello in cui hai compreso che avresti costruito la tua lingua pittorica?


G.L.B. Il mio punto di non ritorno è stato senza dubbio la mia prima mostra, ‘Project 89’. Era un progetto semplice, quasi rudimentale, un ibrido tra esposizione e open studio. Michèle Lamy, dopo aver visto alcuni piccoli schizzi, mi aveva messo a disposizione il seminterrato di uno dei suoi edifici per sperimentare liberamente e cercare il mio linguaggio.

Da li, avevo invitato alcuni amici artisti a unirmi nel processo e, dopo circa sei mesi di lavoro condiviso, abbiamo deciso di aprire lo studio al pubblico. È stata la prima vera occasione in cui ho mostrato i miei lavori e dipinti (tutti su carta, ma con diverse sperimentazioni). La risposta, sorprendentemente calorosa, sia da parte della stampa che degli amici, mi ha fatto capire che non si trattava più soltanto di una ricerca personale.

Qualcosa si era spostato, era diventato essenziale. Ho compreso che avrei continuato a sperimentare, ma che era altrettanto fondamentale rendere visibile il mio lavoro. Solo nell’esposizione delle opere avevo sentito che il cerchio della creazione si chiudeva davvero.


V.M. La tua pittura ha una fisicità quasi scultorea. Cosa succede nel tuo studio quando la materia comincia a “resistere” al gesto? Ti lasci guidare dalla superficie o combatti con essa?


G.L.B. È uno dei temi centrali della mia ricerca. Cerco una fisicità scultorea pur mantenendo il quadro in un piano bidimensionale. La profondità la costruisco aggiungendo strati e strati di pittura, come fossero livelli geologici che oscillano tra figurazione e astrazione.

Di solito lavoro su lino grezzo, ma l’introduzione della coperta militare francese (100% lana)  ha spalancato un nuovo territorio. La lana resiste al pigmento a olio, bisogna creare un medium capace di penetrarla senza soffocarla.

È da questo attrito tra superficie e gesto che nascono possibilità nuove. Inserisco gesso, argilla, materiali che mi permettono di scolpire dentro la pittura stessa.

È stato il passaggio che mi ha condotto naturalmente verso la ceramica, una continuità logica. La scultura non è altro che l’estensione del quadro che si stacca dal muro e entra nello spazio.



GIOVANNI LEONARDO BASSAN , Ritratto in studio
GIOVANNI LEONARDO BASSAN , Ritratto in studio

Ph. AMIR HAZIM



V.M. Il tuo lavoro dialoga da tempo con la moda, da collaborazioni con maison a progetti visivi condivisi. Cosa ti affascina di questo linguaggio e dove vedi il confine — o la connessione — tra moda e arte oggi?


G.L.B. Molti artisti evitano questo discorso, forse per il timore che la moda possa “contaminare” il valore istituzionale dell’arte. Io non lo vedo così. Credo che tutto dipenda dalla qualità e dal rispetto dei progetti (nella selezione dei progetti giusti per te).

Le mie collaborazioni, da Comme des Garçons fino a Michèle Lamy e Rick Owens, sono nate sempre da un riconoscimento reciproco, da un rispetto profondo per l’arte. Se pensiamo a Comme des Garçons, hanno lavorato con figure come Cindy Sherman e Basquiat: questo dimostra che può esistere un dialogo serio, colto e rispettoso. La multidisciplinarità è parte della sensibilità contemporanea. Oggi è molto più accettata e compresa rispetto a dieci anni fa.


V.M. In un’epoca in cui l’immagine digitale sembra saturare ogni spazio, la tua pittura afferma il valore dell’imperfezione manuale. Pensi che la lentezza del gesto possa essere una forma di resistenza culturale?


G.L.B. Sì, assolutamente. Ma penso che la lentezza, la manualità, la dedizione al dettaglio siano anche una forma di lusso e di valore artistico.

I miei dipinti sono costruiti su stratificazioni figurative e astratte: un quadro può richiedere fino a sei mesi di lavoro, perché sotto l’immagine finale ne esistono molte altre, nascoste.

Viviamo in un’epoca in cui l’attenzione è brevissima. Il mio obiettivo è creare immagini che non si esauriscano in dieci o quindici secondi, ma che continuino a rivelarsi nel tempo.

Mi piace l’idea che un’opera cresca con chi la guarda, che nuovi dettagli emergano a ogni incontro, che esistano livelli diversi di lettura.


David & Ema, oil on linen canvas, 30x40cm. 2025
David & Ema, oil on linen canvas, 30x40cm. 2025

Ph. AMIR HAZIM


V.M. L’intelligenza artificiale entra sempre più nei processi creativi, anche visivi. Ti incuriosisce come strumento o ti spaventa come presenza? Credi che un algoritmo possa davvero comprendere la fragilità umana che cerchi di rappresentare?


G.L.B. L’intelligenza artificiale è uno strumento che mi affascina e mi spaventa allo stesso tempo. Il suo potenziale, sia culturale sia tecnico, sta evolvendo a una velocità impressionante, quasi con una dinamica che ci sfugge di mano. È una tecnologia straordinaria, capace di trasformare i processi creativi, ma proprio per questo richiede una grande consapevolezza.

Personalmente, sarei molto curioso di utilizzarla come mezzo di ricerca (pure a livello tecnico), pur mantenendo una certa cautela. Credo che, al momento, l’algoritmo non possa davvero comprendere la fragilità umana che cerco di rappresentare nelle mie opere. Non possiede sentimenti, vulnerabilità o una profondità emotiva reale.

Ma non mi sorprenderebbe se, in un futuro molto vicino, potesse imitarle in modo estremamente convincente.L’intelligenza artificiale sta imparando a replicare l’esperienza umana con un dettaglio quasi inquietante. Anche ciò che è oscuro, ambiguo, doloroso potrebbe presto essere simulato con impressionante verosimiglianza.


V.M.“Blue Temple” mi ha profondamente colpito.In questa tela sembra che la luce non provenga dall’esterno ma dai corpi stessi, come se la pelle diventasse un luogo di rivelazione. La composizione è immersa in un blu che non è solo colore ma atmosfera mentale, quasi una dimensione spirituale.Mi chiedo: che tipo di spazio volevi costruire con Blue Temple — è un luogo di memoria, di cura o di iniziazione? E chi sono, per te, le figure che lo abitano?


G.L.B. Blue Temple è una delle prime opere direttamente ispirate a una collezione di Rick Owens, Temple, la sfilata uomo Spring Summer 2026. La potenza della sfilata, soprattutto il finale con i modelli sospesi nelle struttura metalliche, mi aveva profondamente colpito. quasi come corpi senza vita lasciati abbandonati al proprio peso. Ho cercato di tradurre quell’immagine in uno dei livelli del quadro. Le figure in primo piano provengono invece da scatti rubati nel backstage, momenti intimi e non posati, in cui i modelli sono catturati nella loro distrazione e nella loro umanità.

Il pigmento è molto denso e cambia radicalmente a seconda della luce: sole diretto, luce artificiale, penombra. La pittura respira e muta.

Anche se il quadro è costruito su pochi livelli, la materia è talmente intensa da sembrare molto più complessa.

Per me, Blue Temple è uno spazio di soglia. Può essere memoria, cura, o iniziazione. È un luogo dove la profondità e aperta e può essere interpretata dal pubblico.



David & Ema, oil on linen canvas, 30x40cm. 2025
David & Ema, oil on linen canvas, 30x40cm. 2025

Ph. AMIR HAZIM



V.M. Se dovessi immaginare una tua mostra ideale in un luogo impossibile — una cattedrale, una stazione abbandonata, un corpo umano — dove la vorresti e quale opera metteresti al centro?


G.L.B. Sono profondamente affascinato dalla natura, soprattutto dalla dimensione montana. Se potessi immaginare una mostra in un luogo impossibile, la vedrei su una vetta molto alta, in un paesaggio quasi ascetico.

Lavorerei con un’architettura brutalista ispirata ai muri di Tadao Ando, o addirittura integrata nella roccia. Una grotta contemporanea, scavata nella montagna, dove la durezza del paesaggio incontra la purezza essenziale del cemento.

In questo spazio sospeso, esporrei opere di grande formato, stratificate, dense di pigmenti puri e scuri ma carichi di saturazione,  dove le figure e i colori rispondono alla luce naturale e al clima esterno. Sarebbe un dialogo diretto con gli elementi, un modo per far respirare la materia viva della pittura in un contesto altrettanto vivo e imprevedibile e difficile da raggiungere.

Un luogo estremo, quasi meditativo, dove la fragilità, il corpo e la materia entrano in risonanza con l’immensità del paesaggio.


Di Veronica Mazziotta

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UN'INTERVISTA IMMAGINARIA FIRMATA VERTIGINI STUDIO

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